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Cesare Pavese, La casa in collina: morire vivendo

Creato il 19 gennaio 2011 da Sulromanzo

Cesare Pavese, La casa in collina: morire vivendoMuore suicida, Cesare Pavese. Da Il mestiere di vivere a La luna e i falò, tutta la sua opera palesa un senso di smarrimento – neanche tanto nascosto – dovuto a laceranti e incessanti contraddizioni che, per tutta l’esistenza, hanno segnato il suo io: è una narrativa basata sui contrasti, su forze che si oppongono, che combattono, sulle quali l’unica vincitrice è la morte sola. Vivere è un mestiere – il titolo del suo diario, la cui nascita è datata nel 1935, è significativo: riassume in sole tre parole tutto il suo pensiero, prelude alle fasi principali del suo percorso artistico.

 

La casa in collina(1948), primo dei suoi ultimi quattro romanzi, si presta a una facile lettura in chiave moderna. L’assenza di confessione, di intimità, discorsi scarni e rarefatti spersonalizzano il protagonista: lo rendono l’unica vera vittima del secondo conflitto mondiale. È un vivo incapace di vivere: non un inetto, ma uno sconfitto. La morte che lo circonda gli impone delle scelte, lo costringe a un intervento. Eppure fugge, come se niente stesse accadendo; come se la guerra fosse cessata e i suoi amici fossero tornati a casa, nelle Langhe. Corrado riesce a scappare dalla polizia fascista (che ha catturato i suoi amici, la sua Cate); deve rinunciare a un rifugio offertogli da alcuni preti; infine, ritorna in campagna: fa un tuffo nell’infanzia, o meglio, una immersione. Qui, nella casa sulla collina, non gli è più concesso fuggire. Non deve dar conto ai fascisti (i repubblichini, anche loro morti come gli avversari) ma a se stesso, agli amici con i quali avrebbe dovuto essere.

 

La sua è una vita sottratta a se stessa: la guerra incombe – anche questo contribuisce alla lontananza tra l’inetto Corrado e i gli inetti nevrotici di Svevo – ma non ha una importanza assoluta. Figura, tutt’al più, come metafora di una esistenza contrassegnata da dolore, da violenza; presta il suo paesaggio ai temi di un romanzo in cui qualsiasi speranza nel futuro si confronta e viene sconfitta dal ricordo di ieri e dalla vita inconsistente di oggi. Il XXIII capitolo ne è la più chiara testimonianza:

 

[…] Quest’inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. […] Sui colli, sul ponte di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari

 

Ancora una volta, i contrasti: c’è la primavera, ma porta morte; c’è il futuro inverno della pace, ma il passato settembre degli spari. Dinanzi a tutto questo, lui tace; non ha neanche la forza, la propensione alla disperazione. Osserva il mondo, osserva il suo corpo, si vede vivere: la casa in collina appartiene a una nuova maschera pirandelliana, che non è frutto di un attacco velenoso alla borghesia; attraverso Corrado, infatti, vive Cesare Pavese: emergono le contraddizioni, una inettitudine che lo rende vittima assoluta di se stesso.

 

L’unica prospettiva possibile è la morte, non c’è spazio neanche per una ipotetica fine. Solo per i morti, infatti, “la guerra è finita davvero”, indipendentemente dalle fazioni di appartenenza. Per tutti gli altri, per chi non ha combattuto, il conflitto non è cessato: è come se “lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi”. Non ci sono solo autobiografia e inettitudine, che pure restano i motivi centrali del romanzo, ma anche responsabilità e coscienza sociale, responsabilità sociale: “Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. […] Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi, […] e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.


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